Al cuore di questa liturgia che apre la Settimana Santa è custodita la memoria del Cristo sofferente. Tra le tante memorie che segnano, alimentano, dilatano la nostra vita, questa che ci prepariamo a rivivere è la memoria essenziale, quella più luminosa. Questa memoria – lasciatemi dire – ci appartiene, noi ne siamo luminosamente segnati, segnati e nutriti.
Possa – ce lo auguriamo – possa questa memoria ancora una volta rinnovare la nostra vita. Perché l’aria si è fatta pesante, inquinata. Possa questa memoria fluire come aria leggera, pulita, dentro di me, dentro di noi. Non è forse questa la preghiera che dà inizio alla Messa delle Palme: “Tu ci rinnovi, o Padre, per la beata Passione del tuo unigenito, fatto nostro fratello”? Come lo sentiamo! Sì, come lo sentiamo fratello!
Il carme del Servo sofferente, che ancora una volta abbiamo ascoltato non senza brividi ed emozioni, ripercorre la nascita, la vita, la passione, la morte, la sepoltura, ma anche la glorificazione di questo misterioso Servo di Javeh.
Quelle parole, vere per tanti uomini e per tante donne della storia, vere per Israele ma anche per tanti popoli della terra, trovano il loro pieno inveramento nella storia di Gesù di Nazaret.
“Cresciuto come un virgulto e come una radice in terra arida”, sì, lui. Gesù, una presenza viva in un mondo in qualche misura morto, un dono luminosissimo sceso dall’alto e non certo frutto dei nostri deserti. Lui, uomo macerato, sfigurato, “tolto di mezzo con oppressione e ingiusta sentenza”.
Lo spingeva amore e lui non si è mai fermato. Non ha ceduto ai consigli di chi gli era intorno, di chi gli voleva bene, i suoi. Loro a consigliargli cautela, in tutti i modi a fargli capire che nella vita c’è una misura. Non si è fermato, non si è ritratto.
In una sua commovente poesia, un poeta francese, Didier Rimaud, scrive:
Non te ne andare giù nel
giardino, Gesù mio Signore,
non te ne andare giù nel
giardino prima dell’alba!
Se non me ne vado giù nel
giardino a notte fonda,
chi vi guiderà
fino alle stelle del paradiso?
Sì, me ne andrò giù nel
giardino a notte fonda.
Non farti legare le
mani, Gesù mio Signore,
non farti legare quelle tue
mani senza aprir bocca!
Se non mi faccio legare le
mani come un bandito,
chi distruggerà
sbarre e prigioni di cui
soffrite? Sì, mi farò legare
le mani
come un bandito
Non ti distendere su quella
croce, Gesù mio Signore,
non ti distendere su quella
croce fino a morire!
Se non mi stendo su quella croce ad ali aperte,
chi vi salverà
da questo inferno a cui
correte? Sì, starò steso su
quella croce ad ali aperte.
Ora sappiamo che cosa spingeva i suoi passi, una passione. Estrema. Per il Padre che volevi rivelare nel suo volto più vero, il volto della misericordia. Per noi, perché fosse ricreata la nostra umanità. Che si era come intristita, inaridita, rinsecchita.
Una passione! Ecco è qui il cuore del racconto, del grande racconto della Passione che stiamo per celebrare. Una passione lo consumava, e ancora oggi lo consuma. Una passione che splende per la totalità, per il senza misura, sino all’estremo.
E come poteva Maria, la sua amica, celebrare l’amore del suo amico e maestro, un amore senza misura, senza calcoli? Lei che lo vedeva andare a morire, lei che da lui aveva imparato che dall’amore non ci si trattiene? Se ami veramente, non puoi trattenerti! Come poteva se non con un unguento preziosissimo, una cosa da capogiro? Perché da capogiro era l’amore del suo amico e maestro.
Seguendo i passi di Gesù, in questa settimana santa, contempleremo, ancora una volta stupiti, fin dove mai lo spinse amore. E allora permettetemi una interpretazione, azzardata dal punto di vista esegetico, ma non forse dal punto di vista del cuore. Rileggendo il brano, mi sono fermato al particolare commovente, di Maria che cosparge di unguento profumato i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli. E’ il gesto di una donna che ama. Chissà quante cose voleva dire la donna con quel gesto di una tenerezza estrema. Mi sono fermato ai piedi. E ho pensato a Gesù, a Gesù che un giorno, invitato a pranzo da Simone, il fariseo, con estrema franchezza, senza giri di parole, gli fece notare che non gli ha aveva dato l’acqua per i piedi, l’acqua per i piedi stanchi, un gesto di delicata tenerezza. Quanto potevano essere stanchi i piedi di Gesù per il suo incontenibile andare! Non gli aveva dato l’acqua a sollievo dei piedi. Maria, al contrario, è come se riconoscesse quell’incontenibile andare del suo amico, come se anticipasse la fatica dell’ultimo tratto di salita che lo porta alla croce. Maria glieli cosparge di unguento prezioso. I piedi. Pensate ai piedi instancabili del Rabbi di Nazaret: di quante sabbie nel suo andare si saranno caricatiti quei piedi! Lui mai fermo, in cammino per amore. In ricerca, per amore. Scrive Christian Bobin: “Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato… Se avessimo un orecchio un po’ più fine... potremmo ricevere notizie di lui ascoltando il canto dei granelli di sabbia sollevati dai suoi piedi nudi”.
Quello che Simone non aveva fatto – e gli sarebbe bastata l’acqua – Maria lo fa con un profumo di puro nardo, assai prezioso, lo fa senza curarsi delle critiche che subito nella sala si sarebbero accese, le critiche di chi ingessa fede e religione. Maria lo fa, vuole sollevare la stanchezza, la stanchezza di morte del suo amico e maestro. Che pochi giorni dopo, in una cena d’addio, lascerà questo gesto come suo testamento. Sarà lui a dare l’acqua ai piedi dei suoi discepoli. Sarà lui a lasciare il gesto della lavanda dei piedi come
una consegna, la consegna di fare questo in sua memoria, la consegna di sollevare la stanchezza del mondo. Ancora una volta i piedi, e la lavanda come consegna.
Ma quanto ti sei stancato per noi, Signore! Quanto hai camminato per noi, Signore! Ora sappiamo fino a dove. Sostiamo. E ti benediciamo.
Angelo Casati
Domenica delle Palme
25 marzo 2018
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