Giovanni nel suo vangelo non usa la parola “miracolo”, ma la parola “segno”. Anzi per il suo vangelo questo fu il primo, scrive: ”Questo, a Cana di Galilea, fu ”. Intrigante questo spostamento di orizzonte, quasi Giovanni odorasse un pericolo nell’uso della parola “miracolo”. Si cerca il miracolo, si grida al miracolo, si fa un gran parlare di miracoli e tutto finisce lì, nel racconto del “clamoroso”, del “miracoloso” e, chi più ne ha, più ne metta. Ma badate, se di un gesto non si cerca di che cosa sia segno, il gesto diventa insignificante, un gesto concluso, senza passaggi ulteriori nel paese dell’anima, rattrappito in se stesso. Anche il mutare dell’acqua in vino, se non se ne cerca il segno. Ebbene come l’arrivo dei magi, come il battesimo al Giordano, epifania di Gesù, rivelazione di Gesù, diventa l’acqua mutata in vino. “Coglietene il segno”: sembra ammonire Giovanni dalle pagine del suo vangelo.
Come tutte, o quasi tutte, le pagine del vangelo anche questa sconcerta, ma nell’orizzonte della notizia buona. Perché, dove si manifesta Gesù, dove svela il suo mistero, quello che si porta dentro? Non siamo più in luoghi di raccoglimento, non più il deserto del Battista, che, se non altro per via dell’accorrere delle folle a un battesimo nell’acqua, odorava di conversione. Qui no, niente silenzi devoti, siamo nell’allegria, e nemmeno composta, no, quella spontanea, diremmo sfrenata, di una festa di nozze, quell’aria – qualcuno di noi direbbe un po’ sbracata – che doveva essere normale ai tempi di Gesù, in un villaggio di contadini, in tempi in cui la povera gente il matrimonio di qualcuno se l’aspettava forse per anni, un’occasione per far festa. E la festa durava nel villaggio a volte per giorni, un’occasione per mangiare e bere – non sempre se lo potevano permettere – un’occasione per ballare danze nuziali e cantare canzoni di amore. E tutto va bene, va bene finché c’è vino.
E lui Gesù, lui e i suoi discepoli, la piccola chiesa degli inizi, confusi con tutti. Gesù non è stato di certo invitato a presiedere la cerimonia, non è il celebrante, o forse lo è in incognito, nemmeno supposto dagli sposi, lui il vero celebrante, lui che celebra l’amore. Come? Mutando l’acqua in vino. Con la festa del vino, il vino che, a sua volta, era celebrato come simbolo dell’ebbrezza, dell’ebbrezza dell’amore.
Pur che sia salva la festa, pur che salva sia la celebrazione dell’amore, pur che salvi siano quegli sposi, che, senza accorgersene, sono in pericolo di una brutta figura, quella del vino mancato, pur che salva sia la gioia degli sposi e l’allegria di tutti, Gesù accetta un anticipo dell’ora, l’ora della sua croce. Perché, da lì in avanti, sarebbe stato manifesto, manifesto a tutti, che aveva legato la sua immagine, l’immagine di Dio, alla celebrazione dell’amore umano, a un banchetto. Enzo Bianchi di lui dirà: “Il rabbi che amava i banchetti”. Io non so – me lo chiedo – se noi nelle nostre teologie abbiamo abbastanza esplorato questa connessione: Gesù, il rabbi che amava i banchetti, Dio e l’immagine del banchetto. L’immagine l’abbiamo ritrovata oggi nel brano del profeta Isaia, dove parlando delle cose future, che più future non si può, si dice che Dio “preparerà per tutti i popoli un banchetto” E si aggiunge. “Di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati”.
E sia chiaro allora per tutti, che da ora in avanti non sarà il gelo a raccontare Dio. Sarà l’amore, sarà il banchetto a raccontarlo. E a cantarlo! E questa diventa notizia buona. Da ricordare. Perché dà inizio a una mutazione. Senza però fraintendere: non vorrei che,
parlando dell’acqua mutata in vino, sminuissimo in qualche misura, fino a renderlo irrilevante, il valore dell’acqua. Il comando di Gesù, dopo che la madre gli ebbe detto: ”Non hanno vino”, fu: “Riempite d’acqua le anfore”. E le riempirono fino all’orlo. E allora se ciò che ti è possibile è portare acqua, semplicemente l’acqua, sappi che è un dono prezioso, mettila a disposizione, metti quello che puoi! Poi toccherà a lui, il Signore, trasfigurarla in vino, in ebbrezza, in ebbrezza di amore e di gioia.
Mi sono detto che, a guardar bene, la vera mutazione nel racconto, il vero passaggio, è dalle anfore che servivano per la purificazione, che stavano nel cortile, enormi, solide, ma gelide, immobili, all’allegria del vino. Ma di pietra, secondo la Bibbia, possono rivelarsi anche i nostri cuori. E’ scritto nel rotolo del profeta Ezechiele: “Darò loro un cuore nuovo, e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne” (Ez 11,19). Voi mi capite, non più una religione che non sa parlare altro che di precetti e purificazioni, una religione scritta su tavole di pietra, mai più una religione che guarda con un residuo di sospetto, come qualcosa da purificare, l’amore umano, bensì la fede in un Dio che non contrae, ma dilata l’amore, un Dio che non toglie passione, ma la moltiplica.
Il messaggio non è scontato. Perché, se fossimo fedeli al messaggio, dovremmo di fronte a tante problematiche del nostro tempo, dentro e fuori la chiesa, farci la domanda vera, quella giusta, quella che veramente è decisiva. Chiediti se lì, in quella situazione di vita, in quel gesto, in quella scelta di vita c’è amore. Se c’è, c’è Dio, il Dio che condivide la festa del banchetto. E se amore non c’è, ma abitudine stanca, se c’è gelo o indifferenza, guardati dal dire che lì c’è Dio.
Ho sentito risuonare questi interrogativi nella parole di un biblista spagnolo, Josè Antonio Pagola. Che scrive: “Come possiamo pretendere di seguire Gesù senza coltivare maggiormente tra noi la gioia e l’amore? Che cosa ci può essere di più importante nella chiesa e nel mondo? Fino a quando potremo conservare in anfore di pietra una fede triste e annoiata? A che servono tutti i nostri sforzi, se non siamo capaci di portare amore nella nostra religione? Non ci può essere niente di più triste che sentir dire di una comunità cristiana: ‘Non hanno più vino’”.
Angelo Casati
Seconda domenica dopo l’Epifania – 14 gennaio 2018
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