Il Canarino Incantato: don Ippolito e la sua missione tra noi
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Ormai da più di un mese, nella nostra comunità, è arrivato don Hippolyte Blaise Yangara, per un progetto di cooperazione missionaria tra la sua diocesi di provenienza e la nostra.
Don Ippolito, com’è più facile chiamarlo, sarà tra i missionari accolti nella diocesi di Milano nel corso della Veglia missionaria con la Redditio Symboli, che si celebrerà sabato 25 ottobre alle 20.45 nel nostro Duomo.
L’abbiamo incontrato nella casa parrocchiale di Maria Madre della Chiesa, dove risiede, perché ci racconti qualcosa del suo passato e di cosa si aspetta da questa nuova tappa del suo ministero e della sua vita.
Da dove vieni di preciso?
Vengo dalla diocesi di Bossangoa, nella Repubblica Centrafricana.
Quanti anni hai? Quando hai ricevuto l’ordinazione sacerdotale?
Io ho 53 anni ormai, sono nato il 16 febbraio 1972; sono stato ordinato il 5 dicembre 1999.
Quindi tra un po’ sarà il tuo anniversario. Hai studiato anche in Italia? Dove e quando? In che anni?
Ho studiato in Italia dal 2002 al 2006 al Pontificio Istituto Biblico di Roma. Ho conseguito la licenza in Esegesi biblica. Sono poi tornato in diocesi, dove mi hanno affidato una parrocchia e il servizio dell’Apostolato Biblico. Nel 2011 sono stato nominato vicario parrocchiale, ma sono dovuto scappare a causa della guerra. A quel punto, sono stato destinato a una parrocchia più vicina al confine con il Ciad, San Kizito, nella città di Paoua. Dovevo seguire ventotto comunità sparse in vari villaggi e la più lontana si trovava a settanta chilometri; ci andavo in moto perché le strade non sono praticabili con l’automobile.
Ecco ora la domanda che penso tutti si stiano facendo: come mai sei arrivato qua?
Come ho detto, sono già più di venticinque anni che sono sacerdote, ma ho sentito il bisogno di fare una nuova esperienza per un anno da qualche parte. Il mio vescovo mi aveva chiesto l’anno scorso di andare in Francia, nella diocesi di Chambéry, per tre anni. Io ho detto che io non mi sentivo di andare in Francia per tre anni: ho preferito venire per un anno in Italia, paese che ho conosciuto quando ero studente e che sento come la mia seconda casa. Così il mio vescovo è entrato in contatto con l’arcivescovo di Milano, che ha accettato che io venissi a fare quest’anno di esperienza qui.
Quindi dicevi che sei già stato in Italia e hai studiato a Roma. Eri mai stato a Milano prima di adesso?
Sono venuto più volte a Milano già quando ero già studente. Avevo un amico prete, don Paolo Zago, a Gorgonzola: anche l’anno scorso sono stato da lui e mi ha accolto e ogni volta che potevo, anche quando sono tornato a casa nel 2006; ogni due anni venivo da lui per passare un mese o due d’estate. Anche lui mi ha aiutato a essere inserito in questa diocesi di Milano per quest’anno.
Quindi anche sul piano liturgico sei già abbastanza ferrato, mi pare di capire…
È vero, qualcosa mi sfugge un po’, ma ho comunque avuto negli anni scorsi la possibilità di celebrare la Messa con il rito ambrosiano.
Qui a Gratosoglio sei arrivato ai primi di settembre. Qual è stata la tua prima impressione appena hai messo piede qua? Il nostro quartiere è diverso da un piccolo paese o dal centro della città: cosa ti ha colpito di più?
Vedo che Gratosoglio è un nuovo quartiere, un nuovo ambiente; Gorgonzola è diverso, è un paesino. Qui vedo che c’è parecchia gente, anche tanti stranieri. Mi trovo abbastanza bene, sono all’inizio, ma ciò che mi ha colpito è l’accoglienza dei parrocchiani: appena si sono accorti che è arrivato un nuovo sacerdote, sono venuti volentieri a chiacchierare con me, senza complessi. Questo mi è molto piaciuto: vuol dire che sono capitato bene, come in famiglia.
Ho apprezzato anche l’accoglienza anche da parte del direttore della cooperazione missionaria, che è andato a prendermi all’aeroporto, e quella da parte di don Paolo Steffano, di don Davide, padre Michele e don Pasquale: ci siamo incontrati subito. Nei loro occhi ho visto fraternità, solidarietà e che sono pronti a collaborare per aiutarmi a fare questa esperienza missionaria in mezzo a loro.
Che cosa vorresti portare alla nostra Comunità pastorale? E tu che cosa ti aspetti da noi?
Io ho nulla da portare al di fuori della mia fede, del mio servizio di prete da compiere. Prego Dio di farlo al meglio, come lo faccio a casa mia, perché siamo la Chiesa cattolica, vale a dire la Chiesa che è universale. Anche se mi trovo in Francia, negli Stati Uniti, in Giappone, io devo sempre essere prete come lo sono da più di venticinque anni, come ho detto.
Soprattutto, da parte della comunità mi aspetto un appoggio spirituale: devo pregare per la comunità, ma c’è bisogno che essa preghi anche per me. Io sono qui non a nome mio, sono a nome della chiesa di Bossangoa, so che dietro di me c’è un’aspettativa, come ha detto il mio vescovo: «Vai e comportati bene. Si tratta di una cooperazione tra due diocesi, tra due istituzioni: verrò a trovarti per vedere cosa si può fare assieme con la diocesi di Milano e per una valutazione della tua presenza». Quindi è una missione che non spetta solo a me, ma spetta anche a tutta la mia Chiesa d’origine che mi ha mandato qua.
Emilia Flocchini
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